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Il dibattito sul principio di precauzione è sorto negli anni settanta, grazie ai primi movimenti ambientalisti ed ecologisti. Nella Conferenza sull'Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Earth Summit) di Rio de Janeiro del 1992, il principio di precauzione venne definito dal principio 15 come segue:
"Al fine di proteggere l'ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l'adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale".
Si parla esplicitamente solo della protezione dell'ambiente, ma con il tempo e nella pratica il campo di applicazione si è allargato alla politica di tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale.
A livello europeo il principio di precauzione è stato ufficialmente adottato come uno strumento di decisione nell'ambito della gestione del rischio in campo di salute umana, animale e ambientale, ma può comprendere anche situazioni in cui si prospetti un rischio ma non ci siano prove scientifiche sufficienti a dimostrarne la presenza o assenza. Secondo i suoi sostenitori, seguire il principio di precauzione è la condotta più ragionevole quando vi siano dei dubbi per la salute e l'ambiente.
Ad esempio, se si fosse applicato il principio di precauzione ai primi allarmi (risalenti agli anni sessanta) sulla cancerogenicità dell'amianto, si sarebbe evitato l'eccessivo diffondersi di materiali edili a base di amianto, cosa che ha generato numerosissimi casi di asbestosi e mesotelioma polmonare, oltre a ingenti costi per la successiva bonifica delle aree contaminate. Esempi simili si possono portare per numerose altre sostanze che dopo l'entrata in commercio si sono rivelate dannose per la salute e l'ambiente, tra queste il piombo e più tardi il benzene, come additivi nella benzina, il cadmio nelle batterie o i clorofluorocarburi nei circuiti refrigeranti, sebbene per molti di essi sia ancora dibattuto il reale impatto sulla salute e sull'ambiente.
Secondo alcuni il principio di precauzione si porrebbe in contrasto con il metodo scientifico. Uno dei capisaldi del metodo scientifico è difatti il criterio di falsificabilità introdotto da Karl Popper, che per qualcuno è in contrasto con i principi su cui si fonda il principio di precauzione. Il principio di precauzione non si basa infatti sulla disponibilità di dati che provino la presenza di un rischio, ma sull'assenza di dati che assicurino il contrario. Questo genera il problema di identificare con chiarezza la quantità di dati necessaria a dimostrare l'assenza di rischio, soprattutto alla luce dell'impossibilità della scienza di dare certezze ultimative e definitive. In questo contesto, secondo alcuni, l'applicazione scorretta del principio finisce per bloccare la ricerca scientifica su nuove tecnologie o prodotti, più che preservare la salute dei cittadini e dell'ambiente.
Ulteriori critiche hanno base economica. Per taluni infatti il principio di precauzione è facilmente strumentalizzabile per interessi protezionistici. Essendo previsto dagli accordi internazionali sul commercio, esso può essere invocato in determinate situazioni al fine di impedire l'importazione di alcuni prodotti.
Ad esempio, nel caso degli alimenti derivati da organismi geneticamente modificati, il principio di precauzione è stato invocato da diversi Paesi Europei (tra cui l'Italia) per bloccarne la commercializzazione e la coltivazione. Nell'ambito del dibattito sugli OGM, secondo alcuni, il ricorso al principio di precauzione era motivato più da ragioni di ordine economico e protezionistico, che da reali indizi di potenziali rischi. Questo punto di vista è supportato dal fatto che gli Stati in questione non sono stati in grado di fornire prove scientifiche a supporto di queste misure, motivazione alla base dell'annullamento di alcune delle misure stesse (si veda ad esempio per l'Italia il cosiddetto Decreto Amato del 2000, annullato dal TAR del Lazio quattro anni dopo per mancanza di prove della presenza di rischi).
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ARTICOLO DEL MESE
Covid e ricambi d'aria negli uffici insufficienti
Si è visto che molti contagi da Covid, in ambiente lavorativo, sono avvenuti negli uffici. Il motivo è semplice, non si cambia l'aria in modo adeguato. Uno dei motivi del perché non si cambia l'aria in modo adeguato, in particolare quando fuori fa freddo e c'è la nebbia è che si pensa che quando fuori c'é la nebbia se apriamo le finestre facciamo entrare molta umidità. In realtà è vero esattamente il contrario. Quando fuori c'è la nebbia, per esempio con una temperatura di 5°C e un umidità relativa elevata come per esempio il 90% in un metro cubo di aria (miscela - aria vapore) ci sono circa tre grammi di acqua. Ce ne poca perché quella in più è condensata. Cosa succede se facciamo entrare l'aria esterna in casa o in ufficio e poi la riscaldiamo per esempio a una temperatura di 22 °C ? Succede che l'umidità relativa in casa e in ufficio cala drasticamente perché di acqua in una miscela di aria fredda ce né poca; in questo caso l'umidità relativa diventa pari al 30 %, valore limite per avere effetti dovuti all'umidità troppo bassa (occhi arrossati, gola secca, scintille da cariche elettrostatiche, ecc.) In breve cambiare l'aria d'inverno il rischio non è quello di avere troppa umidità ma quello di avere un ambiente troppo secco.
Chiarito che cambiare l'aria in inverno è un attività che comunque toglie umidità e inquinanti vediamo perché si sono infettati in molti negli uffici.
In termini semplici, in un ambiente chiuso o con scarsa ventilazione dopo un certo tempo, se è presente una persona infetta, nell'aria sono presenti bio aerosol di particelle infette che non vengono filtrate dalle normali mascherine. Le mascherine proteggono da droplet ma non da particelle fini. I biologi dicono che la carica virale dei bio aerosol non è altissima ma a lungo andare, a forza di respirare il virus si accumula e possono partire le infezioni. Questo è il motivo per cui è consigliato avere ambienti adeguatamente ventilati e si definiscono vari tempi di esposizione massimi. Mi scuso con i biologi per l'estrema sintesi. Quindi avere la mascherina e mantenere le distanze in un ambiente non ventilato è condizione necessaria ma non sufficiente per limitare i contagi.
Come valutare la ventilazione
Glob Tek ha investito risorse e tempo per mettere a punto un metodo di valutazione della qualità dell'aria usando come indicatore la CO2 (Anidride carbonica). Ogni persona con attività tipica da ufficio emette circa 21 litri di CO2 all'ora. Se i ricambi sono scarsi, dopo un certo tempo, la concentrazione di CO2 aumenta in modo esponenziale. Noi abbiamo fissato come limite dell'indicatore un valore pari a 1000 ppm come indicato dalle linee guida del CNR anti Covid, ma si poteva anche fissare 1500 ppm, come indicato in altre pubblicazioni. Di seguito si riporta un grafico dell'andamento della CO2 in un ufficio di 30 metri quadrati, occupato da una persona, con una portata di ventilazione di 40 metri cubi ora.
Si evince dal grafico che in queste condizioni per non superare i 1000 ppm di CO2 occorrono almeno 40 metri cubi ora di ventilazione. E se l'ambiente fosse chiuso e sigillato ? Con ambiente sigillato da 30 metri quadrati, una persona, i valori di anidride carbonica e quindi di bio aerosol aumentano nel tempo in modo esponenziale come riportato nel grafico seguente.
Questi grafici sono stati realizzati con un nostro modello matematico e verificati tramite strumentazione certificata di recente acquisizione.
Quindi il metodo di valutazione della qualità dell'aria tramite l'indice CO2 è un metodo semplice e preciso. Potete utilizzarlo anche voi, acquistate un misuratore di CO2 e quando la misura indica un superamento il 1000 ppm cambiate aria. Il valore di CO2 in ambiente aperto è pari a circa 500 ppm, se i valori rilevati si avvicinano a questi vuol dire che l'aria è "pulita".
Il nostro modello permette anche di effettuare il calcolo inverso, cioè misurata o calcolata la concentrazione di CO2 è possibile determinare in funzione del numero di persone la ventilazione necessaria o stabilire ogni quanto tempo occorre aprire le finestre. Per esempio il grafico precedente ci dice che per restare sotto a 1000 ppm occorre cambiare l'aria ogni 2 ore per almeno 5 minuti.
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